Israele, Gaza e il calvario dei civili:
le nuove guerre del XXI secolo.
Il 7 Ottobre del 2023, tra le sabbie del deserto e i campi irrigati che segnano il confine della striscia di Gaza con il territorio controllato da Israele, è iniziato l’inferno. Al violento attacco terroristico perpetrato da Hamas sui civili israeliani sono seguiti ormai 21 mesi di spietata repressione dello stato ebreo. Pian piano, alla comprensione per la volontà di punire i terroristi che dal 2007 governano Gaza, nell’opinione pubblica internazionale si è sviluppato uno sdegno e una indignazione che incontra pochi eguali nella storia moderna.
La condanna delle azioni commesse da Israele in uno dei territori più densamente popolati a mondo, dove il 60% degli abitanti ha meno di 19 anni, è stata parzialmente alimentata, al di là dei fatti in sé, anche dalle dichiarazioni di numerosi decision-makers dello stato ebreo, che in particolare dall’elezione di Donald Trump in poi hanno gradualmente infranto numerose linee rosse e tabù che non sembravano oltrepassabili fino a poche settimane prima. Agli inizi di maggio, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato la sua volontà di prendere il controllo dell’intero territorio di Gaza, evidenziando il cambiamento di rotta di un’operazione che era inizialmente principalmente volta alla degradazione delle capacità militari di Hamas. Inutile dirlo, i costi, sia umani che materiali, che il popolo gazawi dovrà sopportare per via di questa strategia sono indescrivibili. Dalle fila della fragile maggioranza del governo si levano voci a favore del ritorno dei coloni israeliani nel territorio della striscia, cioè a favore di una ricostituzione della situazione pre 2005 che avverrebbe probabilmente a spese di coloro che attualmente abitano quella terra, come del resto è già avvenuto in Cisgiordania.
Le dichiarazioni di diversi membri del governo israeliano di voler, a lungo termine, forzare lo spopolamento di Gaza e il trasferimento della sua popolazione verso altri paesi ha provocato la ferma condanna di numerosi partner internazionali, alleati e non: la Francia e altri paesi europei hanno recentemente dichiarato la loro intenzione di riconoscere uno stato palestinese, mentre le tensioni con gli avversari regionali, come l’Iran, non cessano di aumentare. Parte di questa viva condanna è dovuta all’utilizzo, da parte di Israele, del cibo come arma di guerra: il divieto quasi assoluto di entrata di qualsiasi risorsa utilizzabile a fini umanitari sta facendo scivolare 2,1 milioni di palestinesi della più nera delle carestie, e numerosi sono le testimonianze di persone costrette a mangiare alghe, animali domestici, addirittura le tartarughe che nidificano sulle coste della striscia, pur di sopravvivere. Come se non bastasse, oltre all’evidente impossibilità di qualsiasi attività agricola o di allevamento dovuta al conflitto in corso, anche la pesca è stata vietata, e allontanarsi più di 100 metri dalla costa può costare la vita.
Fermo restando che il diritto di Israele, cosi come di qualsiasi altro stato o nazione del mondo, di difendersi dai barbari attacchi terroristici di cui è costantemente oggetto non è sindacabile, l’uso del cibo o della distruzione indiscriminata come arma contro i civili non è la soluzione a un conflitto che ormai dura da più di 100 anni, se facciamo risalire le sue radici alla dichiarazione Balfour del 1917. Il risultato prevedibile di questa politica potrà solo essere quello di alimentare l’estremismo e l’odio reciproco di due popoli che la storia ha condannato a dover imparare a convivere, e di allontanare sempre di più una possibile soluzione a due stati.